mercoledì 5 marzo 2014

Asterisco #3

DIMMI CARO...



Il capo.



Il capo è un uomo intelligente, preparato, efficientissimo. Sa intervallare con metrica sincopata volgare arroganza ed eclettica cultura. Dice le parolacce, ma si intende di lirica. Non esibisce mai la sua scienza. È un contagocce di erudizione: sa dispensare con la dovuta parsimonia il prezioso sapere, all'occorrenza, giusto giusto quando deve stendere qualcuno. Dispone di una particolarissima percezione bifocale, guarda all'immediato come al remoto, al fine come allo strumento, utilizzando con medesima destrezza ambedue le entità retoriche o progettuali che siano. Mangia come un alligatore, si dichiara contrario a quella cosa che chiama "snobismo enogastronomico", perché è uno contro tendenza, ma sa perfettamente quale vino abbinare all'arrosto. 
E' un sornione, sa gestire i silenzi meglio delle parole. 

Quanto alle parole, poi...

Poi mi chiama caro. 
Ciao caro, mi dice al telefono. 
Non sempre, però, solo quando le cose vanno bene. Se il fatturato precipita come il mio morale in certi periodi dell'anno, in tal caso ridivento Coluichesono. Se poi gli girano, spersonalizza l'interlocutore ricorrendo esclusivamente all'uso di verbi, possibilmente all'imperativo, abbinati con esattezza semantica ad appropriati complementi: dimmi, fammi sapere, manda l'offerta, manda il programma, leggétele queste ***** di mail.

Il più delle volte, però, mi chiama caro. 
Mi scalda il cuore che è una bellezza. L'avrà imparato in qualche corso di marketing: se vuoi far sciogliere i collaboratori come un calippo sul cruscotto devi farli sentire cari. Magari sarà anche vero, perché fuori dall'orario di lavoro è il primo a giocare a biliardino (ora, noi terroni lo chiamiamo biliardino, voi lanzichenecchi calcio balilla, ma è la stessa roba – tanto più che a biliardino io non ci so giocare). 

E' sempre il primo a proporre una bella mangiata, una bella bevuta, insomma: un buontempone. Se non sospettassi che per lui ogni suo gesto ed ogni sua azione sia parte di un preciso disegno, e che quel disegno abbia la forma di un grafico excell relativo ai fatturati mensili, proverei perfino simpatia per lui. 
Ok, lo ammetto, certe volte mi sta simpatico davvero. Poi penso: è solo perché sa fare bene il suo mestiere (non cascarci!). E' una perfetta macchina da lavoro, e nel suo lavoro è grande.

Torno a chiedermi: mi sta simpatico? Non lo so. So solo che se qualcuno mi sta simpatico non mi porrei questa inutile domanda.



Il tecnico.



Il tecnico è un brav'uomo. Di un'eleganza australopiteca, panciuto, dal passo un po' dondolante. Gli manca qualche dente, in compenso gli altri superstiti si esibiscono in un trionfo cromatico che spazia dal beige-seppia-cartapecora al color corteccia di cipresso. Sorvolo delicatamente sull'alito. 
Racconta barzellette talmente imbecilli che fanno perfino ridere, non le barzellette, fa ridere lui, perché poi ti chiede pure se l'hai capita. Personaggio ruspante. Ogni tanto ne combina una delle sue, ma è un brav'uomo e gli vogliamo bene.



Il mio collega.

Il mio collega è uno in gamba. Era un tecnico. Diligente, preciso, spiritoso, puntuale, cordialissimo, corretto, intelligente. Uno così è sprecato come tecnico. Passa a commerciale. Ci sa fare. Non che abbia fatturati elevatissimi... però ci sa fare (e comunque fattura sempre più di me!), ha esperienza, affabilità, esperienza. Spesso mi ha tirato fuori dai guai. Lo stimo. 

Abbiamo anche cenato insieme diverse volte: insomma, andiamo d'accordo, è un tipo alla mano, mi piace. 

Fa carriera, diventa responsabile di filiale. Chi meglio di lui? Anche perché la scelta sarebbe limitata, o lui o io. E io non ho la sua anzianità e la sua esperienza. Il miglior candidato è lui. Il suo lavoro lo fa discretamente.





Poi ti arriva il capo, il mio capo, il nostro capo, quello che dice caro. 

Ci da delle dritte, ci illustra un progetto ambizioso, un progetto che richiede che ci si dia da fare, c'è da rimboccarsi le maniche, dare un metodo al lavoro, impegnarsi con degli obiettivi. 

Ad ogni riunione ho come il sentore di appartenere alla compagnia dell'anello e che il futuro dell'universo dipenda solo dalla riuscita della nostra missione. Però rispondo dicendo: “...sì, è vero, credo che ottimizzando le energie si possa correggere il tiro, centrare meglio gli obiettivi... forse è necessario un approccio più analitico al panorama generale dei clienti non movimentati, effettivamente si percepisce una certa diffidenza generale, ma questo penso che dipenda anche in gran parte da come ci poniamo davanti ai clienti, sono d'accordo sul fatto che bisogna dare una sterzata significativa all'andamento delle vendite, secondo me tutto è riconducibile ad una buona pianificazione della settimana lavorativa, probabilmente dovremmo verticalizzare la proposta in modo da aprire una serie di opportunità nuove laddove ovunque si avverte una certa reticenza generale all'investimento...” e potrei andare avanti così per ore: tutte frasi intercambiabili accompagnate da un adeguato tono riflessivo e qualche pausa con sguardo obliquo verso l'alto, che fa tanto persona matura (tutti espedienti col solo scopo di accelerare il processo di scioglimento della sessione-meeting). 

Il discorsetto sulla filiale, ad ogni modo, va avanti. Il capo dice che dobbiamo arrivare a questi risultati, dobbiamo raggiungere questi livelli, a tal fine il responsabile farà da supervisore tecnico-commerciale: ogni cosa, ogni programma, ogni richiesta deve passare attraverso l'ok del responsabile, cioè il mio collega. 

Passa quindi in rassegna i punti che delineano la figura del perfetto responsabile di filiale.

Insomma, fin qui tutto normale, tutto giusto. 
Ci saluta e se ne va verso l'orizzonte, come Maciste (“rimani con noi” “no, non posso, in altri luoghi c'è bisogno di me... addio... un giorno tornerò”... FINE).



Riunione interna, io, il collega-responsabile e il tecnico. 
Progetti a breve e a lungo termine. 
Si discute su come mettere in atto il sacro verbo del nostro capo. Piano di lavoro. 
Relazione. 
Stampa. 
Fine della riunione.

Io alla mia scrivania, il mio collega alla sua, il tecnico nel suo reparto tecnico. 

Poi il brav'uomo, il tecnicopithecus si riaffaccia nel nostro ufficio per un chiarimento. 

E il mio collega: “Dimmi caro”. 



Mi crollano le braccia. Mi crolla il mondo. Tutto precipita. 
Come un paracadutista che si è scordato a casa l'attrezzatura. 

Ho capito bene? Non l'avevo mai sentito rivolgersi così a uno di noi. Non prima che fosse insignito dell'alta onorificenza capofilialìtica.

Dimmi caro.
Vi lascio immaginare la mia faccia...

Dimmi caro?!?

Da dove è uscita mai tutta questa improvvisa... come chiamarla? carezza... carità... carineria... carosità... carosaggine... carosùme... carognanza?...

Perché è così facile conformarsi? Basta assumere un ruolo qualsiasi in questa pantomima, che già ci si costruiscono i modi e gli atteggiamenti necessari. 
Per ogni impresa c'è l'abito adatto. In questo caso, poi, deve essere della taglia xxl del mio capo. Somigliare al capo il più possibile. Per sentirsi capo a sua volta.

Una volta il capo tirò fuori un discorso sulla leadership, una cosa fluida, incorporea che ti scorrazza tra le budella e gli aminoacidi ascellari, e farebbe di te un leader, una roba che ci si nasce, mica ci si diventa. Un leader è uno che quando parla trascina, gli altri ne percepiscono la leadership come i quadrupedi i feromoni. E quando ci si succubizza al leader, si tende ad imitarlo, ad assumere il suo stesso modo di parlare, le sue battute, la sua mimica.

Sarà la sinusite, ma io i feromoni non li sento. 
Sento solo un certo prurito davanti a tanto conformismo. 

Cosa si prova quando ci si rivolge ad un diretto inferiore chiamandolo caro? Ci proverei anch'io, ma non ho nessun sottoposto con cui tentare l'esperimento. Quando ero bambino brontolavo perché non capivo certe gerarchie, secondo le quali in famiglia chi è più grande comanda. E' banale, ma io non lo capivo. Pensavo piuttosto che potesse essere una cosa da fare a turno, solo che il turno mio non capitava mai: “Quando c'è papà comanda papà, se c'è mamma comanda mamma, se non ci sono loro comanda  mia sorella  più grande di sette anni – ma io a chi comando?” 
E ci piangevo pure! 
“Ai gatti!” era la risposta ironica di mio padre. 

Una volta ce l'avevo i gatti. Il mio preferito si chiamava Vercingetorige. Ora vivo in un appartamento e i gatti non ce l'ho più. Non ho più nessun sottoposto con cui tentare l'esperimento (dimmi caro... che brivido... che sensazione di potere... di grandezza... io, che dico a te, povero paramecio sociale: dimmi caro... e con un sereno gesto gesto della mano dispenso la mia benedizione su di te e sulla tua progenie...)

Vabbè, dai, che c'è di male? In fondo il mio capo lo sa perfettamente, ti dice caro perché ti fa sentire bene, scalda dentro. In altre parole: quando mi chiama caro, gli darei un pugno sul naso, ma lo farei col cuore a bagnomaria... vuoi mettere?

Ok, ci do un taglio, anche perché mi sono stufato. E ho fame.

Al bar c'è un tizio dietro al banco, pieno di tatuaggi. E' tutto uno zampillare di simpatia ardeatina e gel per capelli, ha un sorriso che non so perché ma mi fa pensare alla maionese. Si muove un po' a scatti spostando il peso da una gamba all’altra, pare che tenga il ritmo di un ballo da discoteca che ancora gli rintrona nel cervello dal sabato prima.

Fisso un tramezzino. 
Il soggetto ardeatino fissa me.
Mi sorride: “Dimmi, caro”. 

La lancetta dell'autocontrollo precipita in riserva.


3 commenti:

  1. Ultimamente, il trend mette in guardia, più che dal "Dimmi caro..", dallo "Stai sereno..".. ahah..

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  2. .. comunque è incredibile... lavoriamo nella stessa azienda e non ci siamo mai incontrati!! eheh..

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