lunedì 17 marzo 2014

Bedlam Club #4

LA CANOTTIERA DI FERRO E LA PARANNANZA SEXY (IRON MAN - 2008)


La sensibilità di padre, come è giusto che sia, ebbe la meglio sulla fibra intellettuale di Nicola. Durante quei giorni eravamo tutti preoccupati per il piccolo Carmelo. Ci mise un po’ in effetti a riprendersi. Fu necessario parlare molto con lui, tranquillizzarlo, fornire spiegazioni il più possibile adatte alla sua tenera età senza indugiare su dettagli che in quella fase avrebbero solo peggiorato il suo stato emotivo. Fortunatamente cominciò a dare segni di ripresa. Dal canto mio, lo ammetto, più di qualche volta mi passò per la testa l’idea che il ragazzino abbia volutamente prolungato (e talvolta simulato) gli effetti del trauma, estendendo così di qualche settimana in più i benefici di un inedito sovraccarico di premure e concessioni. Ma era solo un mio pensiero e lo tenni per me. 

Un pomeriggio il piccolo si mise in testa che voleva vedere Iron Man


Ancora una volta proposi di noleggiare il film e guardarlo a casa mia, io, Nicola e il piccolo. Tra l’altro il mio invito capitò in un momento credo opportuno: Nicola e Marisa avevano appena discusso, seppure per un motivo estremamente futile, ma si sa, Nicola attribuisce sempre molta importanza a “certi” dettagli. In altre parole Nicola stava rimproverando Marisa perché a casa si faceva trovare spesso in disordine, trascurata, coi bigodini, le ciabatte e la parannanza presa sull'Euronova, in offerta insieme al gratta calli e a una specie di putto imbarazzante, ingegnato per erogare liquori esattamente da dove la natura umana (maschile) consente solo l’erogazione di acidi urici e... poco altro! 

Marisa ci rimase molto male. Non che mi ritenga così esperto di donne, ma credo che una signora troverebbe taglienti delle osservazioni (per quanto pertinenti) sul suo aspetto. Voglio dire, con tutta la parannanza dell’Euronova è pur sempre una donna, con un suo orgoglio femminile. Vuoi che non si offenda? Finirono per litigare. 
Così la mia idea di assecondare le insistenze di Carmelo capitò a ciccio, come si dice da queste parti. Naturalmente dovetti procurarmi un lettore dvd e imparare al volo ad usarlo, dato che un film così moderno non l’avrei certo trovato in videocassetta.
Portai i due a casa mia, lasciando la povera Casalinga a rimuginare sul suo orgoglio ferito. Azionai il lettore dvd e con grande entusiasmo di Carmelo guardammo Iron Man.

Insomma...

Devo dire, credevo peggio. In pratica c'è un ricco fabbricante di armi, un po' sbruffone, tra il dandy e il tamarro. Fa armi. E con le armi fa un sacco di soldi. Una giornalista gli dice sei insensibile, fai armi, uccidi la gente, roba del genere insomma. Lui niente. Continua a fare quello che vuole incurante delle opinioni altrui. Un tizio sicuro di sé.
Va in Afghanistan e là vede le armi da lui prodotte in mano a gente un po' scontrosa, e allora dice mio dio, cosa sto facendo. Solo che, dopo un risveglio traumatico, si ritrova con una calamita ficcata nel petto e dei fili collegati ad una batteria per auto. Intanto i tizi scontrosi gli ordinano di fabbricare un missile speciale, altrimenti lo avrebbero frullato come una pappetta plasmon. E fin qui...
Da questo momento in poi certi sviluppi mi giunsero un po’ incomprensibili, perché i talebani, giustamente, lo controllavano giorno e notte con una videocamera a circuito chiuso. E lui lì, a lavorare. E io mi chiedo, come si fa a chiedere a un tizio di costruire un missile, da solo, dentro una grotta, utilizzando dei rottami? E senza nemmeno la macchinetta per il caffè nella pausa delle undici! 

Ma lui è uno tosto, è iron man, cioè, non ancora, ma ha in mente di diventarlo. In effetti, dico io, se stai ficcato in una grotta, prigioniero in Afghanistan, con un compagno di cella che sembra l'analista schizzato di altrimenti ci arrabbiamo,
e dei guerriglieri imbufaliti ti ordinano di costruire un missile con i pezzi di uno scaldabagno, tu che faresti? 
E' chiaro, no? 
Ti costruisci una corazza da iron man

Chi non ci avrebbe pensato? 

E intanto lo osservano sul monitor...
...e dicono, cosa fa? 
...dice, lavora, costruisce il missile per noi, visto che bravo? 
...dice, sarà. Forse gli eroi dei fumetti i missili li fanno così... ma io non me li immaginavo a forma di canottiera di ferro. 
...?

...CANOTTIERA DI FERRO? 

Scoppia il caos! E via con mitra, fucili, bombe, ma lui... Lui è Iron Man. E li sbrindella tutti. Alla fine si ritrova con la corazza completamente smandruppata, forse perché nella grotta il cassettino delle vitarelle era un po’ sfornito. Allora torna a casa e se la rifà, più supereròica, con l'mp3 e il bluetooth per mandare i messaggini con le foto e le suonerie di fabri fibra. E da allora, dice, non voglio più costruire armi, ora sono bravo, sono un supereroe, e via con la nuova supercorazza a volare nel cielo e a combattere contro un nuovo nemico, più cattivo dei talebani. 

Insomma, un film per Carmelo. Niente di ché. Non era certo Senti chi parla, ma neanche un film completamente da buttare. 

Tuttavia, mentre rientravamo a casa, Nicola, da attento osservatore di dettagli nascosti, mi ha fatto riflettere sul fatto che il film si può prestare ad un’interessante chiave di lettura di natura... come dire... fiscale!

“Fiscale?”
“Sì, rifletti. Cosa accadde all’azienda del protagonista quando dichiarò che non avrebbe più costruito armi?”
“Le azioni calarono, mi sembra, del 57%”
“Esattamente. Di che materiale era fatta la tutina ipertecnologica?”
“Era d’oro e titanio”
“E allora perché si chiama Iron, che in inglese significa ferro? E’ semplice: era d’oro, ma sull’IRPEF risultava di ferro. Gran furbata!”
Eh, già... Anche per i supereroi sono tempi duri!

Intanto Marisa...

Per quella donna fu un pomeriggio difficile. I commenti di Nicola furono un boccone duro da mandar giù. Quando uscimmo di casa la prima cosa che fece fu andare in camera da letto e guardarsi allo specchio. Con suo grande rammarico dovette ammettere che forse suo marito non aveva tutti i torti. Così mentre noi eravamo a casa mia a guardare il film, lei uscì a fare alcuni acquisti. Poi passò da Rina, la moglie di Nando Er Lametta, che da ragazza lavorò in un negozio di parrucchiera, per farsi dare una sistemata ai capelli. Rina ammise che erano anni che non metteva mano ad una chioma altrui, ma avrebbe fatto del suo meglio...

Quando siamo rientrati abbiamo trovato una Marisa con i capelli rosso-arancione, le ciabattine coi piumini rosa, truccatissima, le unghie pittate di blu e una vistosa parannanza nuova con scritto SEXY. 
Carmelo per tutto il tragitto aveva zompettato eccitatissimo dicendo “io sono airommen” e riproducendo strani suoni con la bocca a significare la corazza che si azionava, e dalla bocca ogni tanto fuoriuscivano innocenti bollicine salivose. Alla vista di Marisa tutti e tre ci siamo pietrificati. Carmelo è rimasto con le braccia alzate e un pario di bollicine che ignare di tutto scoppiettavano sulle labbra. Marisa ci guardò e ammiccando verso Nicola disse: “Embè?” 

Capii l’antifona. Mi accomiatai inventando una scusa. 
Nicola in seguito mi raccontò che nelle intenzioni doveva essere una seratina speciale. Rimpinzarono subito Carmelo con una cena multipla multistrato a base di melanzane. Poi lo spedirono a letto. Quando si furono accertati che dormisse (dalle tonalità baritonali del suo respiro) si diressero verso la camera da letto, lei miagolando lui ululando. Fu una cosa terribile, tanto più che Carmelo si svegliò poco dopo per un improvviso attacco di pancia. Quando uscì dal bagno sentì dalla camera dei suoi genitori strani versi indecifrabili e pensò che fossero arrivati i talebani e li stessero randellando per bene. Intenzionato a salvarli, tornò in bagno e smontò il motorino del phon. Col cerotto se lo fissò in petto. Poi si infilò nell'incavo di un vecchio cestello della lavatrice rotta che Nicola aveva in garage e collegò i fili del motorino a una batteria per auto scovata in un angolo. 
Dovettero portarlo di corsa al pronto soccorso. Non tanto per la scossa, quanto per il fatto che non riuscivano a tirarlo fuori da tutta quella ferraglia. Al Santa Maria Goretti videro arrivare un tizio in boxer, canottiera, calzini e scarpe allacciate, una pazza dai capelli rossi sparati, il trucco spalmato sulla faccia che sembrava l'uomo tigre e la parannanza SEXY, e un ragazzino ficcato in una lavatrice ficcata nel bagagliaio della Ritmo 60. 

Alla vista di ciò chiamarono subito i carabinieri. 
In sala attesa c'era pure un immigrato afgano che li guardò e scosse il capo con tristezza.

mercoledì 5 marzo 2014

Bedlam Club #3

UBIQUITA' E SUSHI ALLA PESCATORA (SEX AND THE CITY - 2008)



“Salve”
“Buongiorno, Nicola. Prego, dopo di lei...”
“Ma si figuri, faccia, faccia con comodo...”
“Ma vuole scherzare... Mi permetta di tenere alzato il coperchione...”
“Grazie, ma non deve...”
Andammo avanti così a lungo, e ogni volta allo stesso modo, cortesi, cerimoniosi, ma formali, dandoci sempre del Lei. E intanto il povero cassonetto, guardando ora l'uno ora l'altro, attendeva sbavando il nostro fetido sacchetto quotidiano.
Il giorno prima gli avevo restituito la videocassetta e dalla chiacchierata che ne seguì mi convinsi che avrei imparato tanto da una persona del genere. Per diversi giorni continuammo ad incontrarci su quel ciglio di strada, davanti alla differenziata, a parlare di cinema. Si diceva che prima o poi avremmo visto un film insieme, ma i giorni passavano e ancora non arrivava nessun invito. Così un giorno presi io l’iniziativa e lo invitai da me. 
Per prima cosa ne parlò con Marisa, sua moglie.
“Vai a casa di chi? A fare cosa?”
“Mi ha invitato a guardare un film”
“Ma io avevo già chiesto a Rosaria di passare a trovarci”
“Embè? E’ perfetto! Ve ne state tra voi donne, tranquille, tu, Rosaria, Zia Mafalda e compagnia bella (da quelle parti si usa molto dire compagnia bella). Carmelo è col nonno a giocare nel parco. Cugino Cleonte... lo sappiamo, non è un problema.”
“Vabbè. Allora anche noi ci guardiamo un film”
“Brava. Mi sembra un’ottima idea”.
Trovarono quindi un accordo. Buon per loro. Buon per noi. Fu un pomeriggio indimenticabile. L’inizio di una lunga e profonda amicizia. Il giorno in cui cominciammo a darci del Tu. 
Nicola mi spiegava che per decifrare il linguaggio cinematografico è necessario prendere confidenza con alcune pellicole fondamentali nella storia del cinema, alcuni film che Nicola mi descrisse come pietre miliari, fondamenti imprescindibili, pilastri reggenti, menhir di cine-sacralità.  
Così le ragazze si gustarono la visione di un filmetto da donne, “Sex and the City”. 


Noi avevamo progetti più complessi, una roba virilmente strutturata, o strutturalmente virile, che desse luogo ad ampie e ricche discussioni sullo sguardo e il pensiero. Insomma, un film da uomini.
Quel pomeriggio guardammo “Senti chi parla”. 



Da questo punto in poi (almeno fino alla fine di questo capitolo) il dovere di cronaca mi impone di sdoppiare ubiquamente il punto di vista narrante, da voce immanente a narratore onnisciente, sebbene pare che l’onniscienza si addica al Sottoscritto nella stessa misura in cui sia sensato parlare di Hegel con uno gnu. 
Questo perché, nello stesso momento in cui Nicola incideva chirurgicamente e analiticamente le sequenze di quel film così importante, Marisa si stava lasciando plasmare da quell’universo sciccoso fatto di donne moderne, alla moda. 
Così da una parte la mente assetata di sapere del Sottoscritto viaggiava a velocità siderali tra le comparazioni teoriche di Nicola; dall’altra la mente vulnerabilmente casalinga di Marisa prendeva coscienza del fatto che altrove vi è un mondo dove le donne vivono una vita fatta di cocktail, moda, scarpe firmate e un via vai di uomini confusi e disponibilissimi. 
Da una parte il Sottoscritto si struggeva all’idea di un’esistenza trascorsa nell’inconsapevolezza, nell’ombra dell’ignoranza; dall’altra Marisa ripensava alla sostanziale differenza tra “The City” e Cerciabella, dove al posto delle scarpe sbrilluccicose da mutuo ventennale poteva trovare delle Melluso per Rosaria che soffriva per l’alluce valgo. Da questo lato del vialone un assorto Sottoscritto non distoglieva lo sguardo dal suo nuovo Mentore e Maestro; dall’altro una casalinga disperata misurava attenta i connotati della sua muliebre cerchia di amiche del cuore: Rosaria la Tabaccaia delle Castella, pingue e dondolante sui suoi piedini rinchiorti; Rina, moglie di Nando Er Lametta, un ospite fisso della Casa Circondariale di Velletri, la quale provò inizialmente (e inutilmente) a guadagnarsi da vivere lavorando come badante presso la malvagia e feroce Zia Mafalda; la Zia stessa, ottantacinquenne di Terracina, da tempo installata su un impianto mobile inizialmente concepito come semplice carrozzella da invalido, poi divenuta mano mano una struttura polipòide da cui si allargava un tentacolare via vai di tubi di catetere, ossigeno e flebo, con tanto di sacchette, bombolette, inalatori nasali e bracci di sostegno per boccette rovesciate; infine, a completare il cast l’Unica Vera Badante Possibile e Concepibile per cotanta Zia, la Colossale Dragomira, una moldava-bulgara-romena-non-s’è-mai-capito-bene-di-dove-fosse di centotrenta chili, dotata di solida robustezza di carattere insieme ad un innato temperamento cosacco.
I due film procedevano e si dipanavano, ignari l’uno dell’altro, ma soprattutto inconsapevoli dell’effetto profondo che avrebbero suscitato nelle menti di due personaggi diversamente assorti: il Sottoscritto capì che aveva passato tutta la sua esistenza nel buio; Marisa capì che la sua vita era uno schifo. Il Sottoscritto decise che da quel momento in poi avrebbe impiegato il resto dei suoi giorni a comprendere i misteri della vita scomponendone i segnacoli tra le parole attente e misurate di Nicola Pozzarelli; Marisa decise che forse non avrebbe potuto cambiare una virgola del suo vivere quotidiano fatto di tagliatelle e cif ammoniacal, ma almeno avrebbe dato una svolta decisiva al resto di quella serata.
Congedò le amiche (Dragomira trascinò di sopra una riluttante Zia) e si assicurò che Carmelo e il nonno fossero ancora nel parco a giocare. Quanto a Cugino Cleonte, quello non era un problema... 
Calcolò che di lì a breve il marito sarebbe tornato a casa e che per un po’ si sarebbero trovati soli, così le venne l’intuizione che avrebbe restituito un po’ di stile alla circostanza. Pensò di emulare una sequenza di “Sex and the City”, non ho ben capito quale dato che non ho visto il film in questione. L'idea era quella di farsi trovare “al naturale”, con porzioni di sushi ben distribuite nei punti “sensibili”. Ma a Cerciabella non è facile trovare del sushi, così si è cosparsa di risotto alla pescatora e si è posizionata sul tavolo in attesa che il marito rientrasse. 
Il problema fu che fece male i calcoli. Finito il film da donne, le donne tornano alla vita quotidiana. Finito il film da uomini (Senti chi parla) gli uomini ne discutono la sostanza per ore ed ore. Così Marisa si addormentò nell’attesa mentre gli uomini si salutarono dopo aver sviscerato viscere e frattaglie del sapere.
Nicola si incamminò inconsapevole verso casa. Al rientro notò uno strano traffico di gatti che andavano a scovare dei gamberetti freddati direttamente sul corpo della poveretta, la quale ronfava come un pitbull. Pensando ad uno scenario tipo Charles Manson, Nicola uscì fuori in strada urlando come un invasato. Marisa si svegliò faccia a faccia con un felino spelacchiato dalla cui bocca fuoriusciva un tentacolino di calamaro. Uscì fuori in strada urlando anche lei e disseminando mappazze di risotto alla pescatora sul marciapiede, inseguita da un'orda demoniaca di felini inferociti. Quando Nicola si vide arrivare incontro una pazza ignuda, con un esercito di bestie al seguito e una enorme chela di granchio sulle pudenda, svenne. Lei inciampicò sul corpo stramazzato del marito e immediatamente il famelico miagolume lì ricoprì stimolando la curiosità, per altro, di un imprecisato numero di roditori e un paio di sciami di vespe. Fu necessario chiamare la disinfestazione.
Due giorni dopo l’assistente sociale voleva portare via il figlioletto Carmelo, che aveva seguito tutta la scena dall’altalena del parco vicino casa. 
Per i successivi tre giorni era in grado di pronunciare solo le parole arùspice, stabbiuòlo e croton-tiglium.

Asterisco #3

DIMMI CARO...



Il capo.



Il capo è un uomo intelligente, preparato, efficientissimo. Sa intervallare con metrica sincopata volgare arroganza ed eclettica cultura. Dice le parolacce, ma si intende di lirica. Non esibisce mai la sua scienza. È un contagocce di erudizione: sa dispensare con la dovuta parsimonia il prezioso sapere, all'occorrenza, giusto giusto quando deve stendere qualcuno. Dispone di una particolarissima percezione bifocale, guarda all'immediato come al remoto, al fine come allo strumento, utilizzando con medesima destrezza ambedue le entità retoriche o progettuali che siano. Mangia come un alligatore, si dichiara contrario a quella cosa che chiama "snobismo enogastronomico", perché è uno contro tendenza, ma sa perfettamente quale vino abbinare all'arrosto. 
E' un sornione, sa gestire i silenzi meglio delle parole. 

Quanto alle parole, poi...

Poi mi chiama caro. 
Ciao caro, mi dice al telefono. 
Non sempre, però, solo quando le cose vanno bene. Se il fatturato precipita come il mio morale in certi periodi dell'anno, in tal caso ridivento Coluichesono. Se poi gli girano, spersonalizza l'interlocutore ricorrendo esclusivamente all'uso di verbi, possibilmente all'imperativo, abbinati con esattezza semantica ad appropriati complementi: dimmi, fammi sapere, manda l'offerta, manda il programma, leggétele queste ***** di mail.

Il più delle volte, però, mi chiama caro. 
Mi scalda il cuore che è una bellezza. L'avrà imparato in qualche corso di marketing: se vuoi far sciogliere i collaboratori come un calippo sul cruscotto devi farli sentire cari. Magari sarà anche vero, perché fuori dall'orario di lavoro è il primo a giocare a biliardino (ora, noi terroni lo chiamiamo biliardino, voi lanzichenecchi calcio balilla, ma è la stessa roba – tanto più che a biliardino io non ci so giocare). 

E' sempre il primo a proporre una bella mangiata, una bella bevuta, insomma: un buontempone. Se non sospettassi che per lui ogni suo gesto ed ogni sua azione sia parte di un preciso disegno, e che quel disegno abbia la forma di un grafico excell relativo ai fatturati mensili, proverei perfino simpatia per lui. 
Ok, lo ammetto, certe volte mi sta simpatico davvero. Poi penso: è solo perché sa fare bene il suo mestiere (non cascarci!). E' una perfetta macchina da lavoro, e nel suo lavoro è grande.

Torno a chiedermi: mi sta simpatico? Non lo so. So solo che se qualcuno mi sta simpatico non mi porrei questa inutile domanda.



Il tecnico.



Il tecnico è un brav'uomo. Di un'eleganza australopiteca, panciuto, dal passo un po' dondolante. Gli manca qualche dente, in compenso gli altri superstiti si esibiscono in un trionfo cromatico che spazia dal beige-seppia-cartapecora al color corteccia di cipresso. Sorvolo delicatamente sull'alito. 
Racconta barzellette talmente imbecilli che fanno perfino ridere, non le barzellette, fa ridere lui, perché poi ti chiede pure se l'hai capita. Personaggio ruspante. Ogni tanto ne combina una delle sue, ma è un brav'uomo e gli vogliamo bene.



Il mio collega.

Il mio collega è uno in gamba. Era un tecnico. Diligente, preciso, spiritoso, puntuale, cordialissimo, corretto, intelligente. Uno così è sprecato come tecnico. Passa a commerciale. Ci sa fare. Non che abbia fatturati elevatissimi... però ci sa fare (e comunque fattura sempre più di me!), ha esperienza, affabilità, esperienza. Spesso mi ha tirato fuori dai guai. Lo stimo. 

Abbiamo anche cenato insieme diverse volte: insomma, andiamo d'accordo, è un tipo alla mano, mi piace. 

Fa carriera, diventa responsabile di filiale. Chi meglio di lui? Anche perché la scelta sarebbe limitata, o lui o io. E io non ho la sua anzianità e la sua esperienza. Il miglior candidato è lui. Il suo lavoro lo fa discretamente.





Poi ti arriva il capo, il mio capo, il nostro capo, quello che dice caro. 

Ci da delle dritte, ci illustra un progetto ambizioso, un progetto che richiede che ci si dia da fare, c'è da rimboccarsi le maniche, dare un metodo al lavoro, impegnarsi con degli obiettivi. 

Ad ogni riunione ho come il sentore di appartenere alla compagnia dell'anello e che il futuro dell'universo dipenda solo dalla riuscita della nostra missione. Però rispondo dicendo: “...sì, è vero, credo che ottimizzando le energie si possa correggere il tiro, centrare meglio gli obiettivi... forse è necessario un approccio più analitico al panorama generale dei clienti non movimentati, effettivamente si percepisce una certa diffidenza generale, ma questo penso che dipenda anche in gran parte da come ci poniamo davanti ai clienti, sono d'accordo sul fatto che bisogna dare una sterzata significativa all'andamento delle vendite, secondo me tutto è riconducibile ad una buona pianificazione della settimana lavorativa, probabilmente dovremmo verticalizzare la proposta in modo da aprire una serie di opportunità nuove laddove ovunque si avverte una certa reticenza generale all'investimento...” e potrei andare avanti così per ore: tutte frasi intercambiabili accompagnate da un adeguato tono riflessivo e qualche pausa con sguardo obliquo verso l'alto, che fa tanto persona matura (tutti espedienti col solo scopo di accelerare il processo di scioglimento della sessione-meeting). 

Il discorsetto sulla filiale, ad ogni modo, va avanti. Il capo dice che dobbiamo arrivare a questi risultati, dobbiamo raggiungere questi livelli, a tal fine il responsabile farà da supervisore tecnico-commerciale: ogni cosa, ogni programma, ogni richiesta deve passare attraverso l'ok del responsabile, cioè il mio collega. 

Passa quindi in rassegna i punti che delineano la figura del perfetto responsabile di filiale.

Insomma, fin qui tutto normale, tutto giusto. 
Ci saluta e se ne va verso l'orizzonte, come Maciste (“rimani con noi” “no, non posso, in altri luoghi c'è bisogno di me... addio... un giorno tornerò”... FINE).



Riunione interna, io, il collega-responsabile e il tecnico. 
Progetti a breve e a lungo termine. 
Si discute su come mettere in atto il sacro verbo del nostro capo. Piano di lavoro. 
Relazione. 
Stampa. 
Fine della riunione.

Io alla mia scrivania, il mio collega alla sua, il tecnico nel suo reparto tecnico. 

Poi il brav'uomo, il tecnicopithecus si riaffaccia nel nostro ufficio per un chiarimento. 

E il mio collega: “Dimmi caro”. 



Mi crollano le braccia. Mi crolla il mondo. Tutto precipita. 
Come un paracadutista che si è scordato a casa l'attrezzatura. 

Ho capito bene? Non l'avevo mai sentito rivolgersi così a uno di noi. Non prima che fosse insignito dell'alta onorificenza capofilialìtica.

Dimmi caro.
Vi lascio immaginare la mia faccia...

Dimmi caro?!?

Da dove è uscita mai tutta questa improvvisa... come chiamarla? carezza... carità... carineria... carosità... carosaggine... carosùme... carognanza?...

Perché è così facile conformarsi? Basta assumere un ruolo qualsiasi in questa pantomima, che già ci si costruiscono i modi e gli atteggiamenti necessari. 
Per ogni impresa c'è l'abito adatto. In questo caso, poi, deve essere della taglia xxl del mio capo. Somigliare al capo il più possibile. Per sentirsi capo a sua volta.

Una volta il capo tirò fuori un discorso sulla leadership, una cosa fluida, incorporea che ti scorrazza tra le budella e gli aminoacidi ascellari, e farebbe di te un leader, una roba che ci si nasce, mica ci si diventa. Un leader è uno che quando parla trascina, gli altri ne percepiscono la leadership come i quadrupedi i feromoni. E quando ci si succubizza al leader, si tende ad imitarlo, ad assumere il suo stesso modo di parlare, le sue battute, la sua mimica.

Sarà la sinusite, ma io i feromoni non li sento. 
Sento solo un certo prurito davanti a tanto conformismo. 

Cosa si prova quando ci si rivolge ad un diretto inferiore chiamandolo caro? Ci proverei anch'io, ma non ho nessun sottoposto con cui tentare l'esperimento. Quando ero bambino brontolavo perché non capivo certe gerarchie, secondo le quali in famiglia chi è più grande comanda. E' banale, ma io non lo capivo. Pensavo piuttosto che potesse essere una cosa da fare a turno, solo che il turno mio non capitava mai: “Quando c'è papà comanda papà, se c'è mamma comanda mamma, se non ci sono loro comanda  mia sorella  più grande di sette anni – ma io a chi comando?” 
E ci piangevo pure! 
“Ai gatti!” era la risposta ironica di mio padre. 

Una volta ce l'avevo i gatti. Il mio preferito si chiamava Vercingetorige. Ora vivo in un appartamento e i gatti non ce l'ho più. Non ho più nessun sottoposto con cui tentare l'esperimento (dimmi caro... che brivido... che sensazione di potere... di grandezza... io, che dico a te, povero paramecio sociale: dimmi caro... e con un sereno gesto gesto della mano dispenso la mia benedizione su di te e sulla tua progenie...)

Vabbè, dai, che c'è di male? In fondo il mio capo lo sa perfettamente, ti dice caro perché ti fa sentire bene, scalda dentro. In altre parole: quando mi chiama caro, gli darei un pugno sul naso, ma lo farei col cuore a bagnomaria... vuoi mettere?

Ok, ci do un taglio, anche perché mi sono stufato. E ho fame.

Al bar c'è un tizio dietro al banco, pieno di tatuaggi. E' tutto uno zampillare di simpatia ardeatina e gel per capelli, ha un sorriso che non so perché ma mi fa pensare alla maionese. Si muove un po' a scatti spostando il peso da una gamba all’altra, pare che tenga il ritmo di un ballo da discoteca che ancora gli rintrona nel cervello dal sabato prima.

Fisso un tramezzino. 
Il soggetto ardeatino fissa me.
Mi sorride: “Dimmi, caro”. 

La lancetta dell'autocontrollo precipita in riserva.