L’idea di un Club che circoscrivesse e congregasse menti assetate di sapere ancora non si configurava nella mente di nessuno, ma si sa, l’ambiente talvolta determina caratteri e tratti somatici, così anche il nostro ambiente congeniale, il nostro battello solcante le acque del pensiero, il nostro garage (o meglio, quello di Nicola) dove regolarmente cominciammo a radunarci, fu quel medesimo luogo ad imporre e tracciare i connotati stessi del nostro prestigiosissimo Club.
Quel sabato pomeriggio eravamo seduti in veranda a sorseggiare un succo di frutta. Si parlava dell’accaduto.
“Tu hai ragione, Nicola, però...”
“Però, cosa?”
“Voglio dire... mettiti nei suoi panni, tutto il giorno in casa...”
“Ho capito, ma tu mettiti nei miei. Con lo stipendio che prendo al Sigma ci devo campare una famiglia mica da poco, una moglie, un figlio, il Nonno, una zia paralitica, la badante, che mangia come un caimano, Cugino Cleonte...”
Tutti personaggi che entro breve tempo avrei conosciuto di persona. Per il momento dovevo accontentarmi delle brevi descrizioni che ne faceva Nicola.
“Ma perché, la zia e il nonno non ce l’hanno la pensione? E la zia non prende l’accompagno, con cui ci paghi Dragomira?”
“Sì, ma che c’entra, ...mi fai i conti in tasca?”
Certo, non volevo essere invadente né irrispettoso, semplicemente cercavo di vedere la cosa anche dal punto di vista di Marisa. Non che fossero affari miei, anzi, di solito mi tengo alla larga da questioni che non mi riguardano. Solo che iniziavo a considerare Nicola un amico, e a un amico si parla con franchezza. Se no che razza di amico è?
“Non voglio farti i conti i tasca. Però secondo me nemmeno dovresti lamentarti se Marisa si è presentata con quei capelli arancioni. Ok, sembrava un evidenziatore, ma ha fatto quello che poteva cercando di risparmiare. Poi mica è colpa sua se Rina, l’ultima cliente che ha servito era una superstite delle guerre puniche. Secondo me ogni tanto dovresti lasciarle qualche soldo per lei, potrebbe togliersi qualche sfizietto da donna, andare da un parrucchiere vero, comprare qualche cosa per la casa, insomma, sentirsi più soddisfatta. Che ti costa?”
Nicola rimase in silenzio.
In quel silenzio lungo e profondo riflettei anch’io. Forse mi ero imbarcato in una questione più delicata di quanto sembrasse dall’esterno. In fondo cosa può capire uno come me delle pressioni che subisce un uomo che ha sulle spalle la responsabilità di una famiglia così articolata e insolita...
Svuotai la bottiglietta e guardai l’orologio. Si stava facendo tardi, era ormai ora di cena. Mi avrebbe fatto piacere un invito a restare: era da molto che ci si vedeva e si parlava di cinema eppure non avevo mai ricevuto un invito a cena. A dirla tutta non avevo ancora mai varcato l’uscio di casa Pozzarelli. Probabilmente ci voleva più tempo per guadagnare la fiducia di Nicola, e per un attimo temetti che con l’ultima conversazione avessi posticipato di un bel po’ il desiderato traguardo.
In realtà, compresi molto tempo dopo, Nicola semplicemente aspettava per capire quale fosse il momento migliore e meno traumatico possibile per introdurmi in quel mondo strano, caotico e colorito che era Casa Pazzarelli. Quel che Nicola ignorava, invece, era che proprio in quell’ambiente avrei trovato il mio habitat naturale. Ma certe cose si comprendono col tempo, e io non sono uno che mette fretta alle cose, anzi, fosse per me, il tempo farebbe meglio a prendersela comoda.
Come faccio di solito io.
“Perché non passi domani tarda mattinata? E’ domenica e io non lavoro. Potresti entrare a prendere un caffè.”
Usò proprio il verbo entrare.
Entrare.
Verbo intransitivo.
Penetrare in un luogo, varcare, introdursi, andare dentro.
Io entro, tu entri, egli entra.
Intransitivo nella forma. Transitivissimo nella sostanza.
Era un invito: facevamo passi da gigante. Il destino stava tracciando a nostra insaputa il suo sghignazzante percorso verso l’Eden del nostro prestigiosissimo Club.
La domenica mattina percorrevo entusiasta il vialone di Cerciabella pronto a imparare da Nicola a scandagliare la vita attraverso i meccanismi del cinema. Ma invece di varcare la soglia di un’accademia del sapere, piombai nel mezzo di una discussione domestica.
Marisa, sua moglie, aveva indosso la solita sbiadita parannanza, i bigodini tra i capelli ancora color cartoni animati, arrotolati come cannelloni sotto una specie di zanzariera verdastra e un paio di guanti di gomma gialli. Nicola in canottiera, calzoncini corti con laccetto e sandali di gomma la guardava attraverso le ampie lenti dei suoi occhiali e cercava di pararsi dalla veemenza con cui sua moglie lo affrontava, a difesa dei più nobili principi di igiene domestica e di riverenza mastrolìndica.
“Ho appena passato lo straccio, qui... Guarda cosa hai fatto... Ti vuoi togliere di mezzo, sì o no?”
“Guarda che in casa comando io e passo dove e come mi pare, chiaro?”
Marisa sollevò lo scopettone: “Ah, sì? E allora fammi vedere come comandi tu. Prova a passare un’altra volta!”
“Ma che razza di figura ci fai fare davanti agli amici, eh? (indicando il Sottoscritto) Noi due stiamo avviando un dibattito costruttivo sull’arte, la vita, il cinema, l’esistenza...”
“Un dibattito... tu e sto broccolo? Due come voi possono fare solo gare di pedate sul pavimento bagnato.”
“Non sono pedate!”
“Ah, no? E cosa sono queste?”
“Sono orme.”
“Allora ormeggiate da un’altra parte!”
“Io non prendo ordini da te, donna. Chiaro?”
“E io ti spacco lo scopettone in testa, uomo. Intesi?”
“Ma non capisci? Noi si discute di arte, si fa della filosofia... Che puoi capire tu, che al posto del cervello c’hai il dixan.”
Marisa si portò le mani ai fianchi: “Fatemi capire: voi due fate la filosofia in piedi nel corridoio mentre io lavo il pavimento? E tu che c’avresti nel cervello? La simmenthal?”
“Che vorresti dire?”
“Che non stai facendo filosofia. Stai facendo pedate!”
Fu a quel punto che Nicola sfoderò una delle sue citazioni argute, ficcanti, elegantissime.
“Sai cosa disse Conrad? Disse: ‘Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra in realtà sto lavorando?’”, e sorrise soddisfatto per quell’1 a 0.
Marisa non parve molto atterrita, anzi, reagì con un inaspettato contropiede: “Sai cosa disse la moglie di Conrad? Disse: ‘Come faccio a spiegare a mio marito che quando pulisco casa sarebbe meglio che se ne andasse a lavorare davanti alla finestra... lui e il suo amico broccolo?’”
Fu un netto 2 a 1!
Conrad e il Broccolo dovettero battere ritirata.
“Andiamocene giù in garage. Là almeno staremo tranquilli.”
Fu così che ebbi accesso al garage di Nicola. L’ambiente era ampio, fresco, concepito, pare, per dar alloggio a ben due auto di grossa cilindrata. Ma in famiglia Pozzarelli si transitava da anni con una sola Ritmo 60 blu, sicché gran parte dello spazio rimaneva inutilizzato. Lungo le pareti laterali erano sistemati degli scaffali in metallo pieni di barattoli con le conserve dei pomodori. Alla parete centrale un tavolaccio con gli attrezzi. In un angolo notai un vecchio televisore, un Telefunken degli anni 80.
“Funziona?”, chiesi.
“Credo di sì. Lo portammo qui quando comprammo il televisore nuovo. Solo che qui giù non c’è l’attacco dell’antenna.”
“E a che ci serve? Basta che ci si possa collegare un videoregistratore. Potremmo vedere i nostri film e parlarne indisturbati”.
“E’ vero. Mi sembra un’ottima idea!”
Eravamo entusiasti. Aprimmo un tavolino da mare un po’ arrugginito, di quelli con la scacchiera verde e blu da un lato e quel gioco assurdo con triangoli e punte dall’altro. Ci mettemmo sopra il Telefunken e ci accomodammo sulle sedioline, scegliendo ovviamente quelle con lo schienale. Così, mentre la moglie di Conrad detergeva l’Orrore dell’universo a colpi di Lysoform, noi avevamo trovato un posticino a nostra misura, per i nostri discorsi, i nostri film.
Il Regno di Conry e Brokky (per gli amici!)
Col passare delle ore (e col susseguirsi di film in VHS e qualche strafogàta di tramezzini) quel luogo si figurava nella nostra mente come qualcosa di simbolico, pareva quasi offensivo chiamarlo “garage”. Cominciava a sembrare un vero e proprio tempio del sapere, aula magna di Sommo Scolarca, un qualcosa che la mia testa tentava di raffigurare contrapponendo due immagini analoghe e contrarie, che provavo a descrivere al mio amico più o meno in questo modo: la prima di un’isola, un approdo felice, punto fermo nell’oceano del Concetto; l’altra di una nave, un battello natante tra i mari della Verità.
Mi sentivo tanto rinascimentale. E anche un pochino imbecille. Lo sapevo che non avrei dovuto mettere la senape nelle cozze la sera prima.
“Lo Zaratan.”
“Eeehh?”
“Lo Zaratan.”
“...”
“L’Isola di San Brandano.”
“Hemm...”
“Ma sì. Quello che stai dicendo... L’Isola di San Brandano, il prete che nel Medioevo viaggiò alla ricerca del Paradiso. Una storia antichissima. Viaggiò per lungo e per largo. Poi giunse su un’isola: lo Zaratan, o Yeson, a seconda della versione della leggenda. L’isola però non era un’isola normale. Era un pesce. L’enorme pesce che fu scambiato per isola. Approdo e natante al tempo stesso...”
Nicola stava dando un nome simbolico al suo garage e a tutto ciò che avrebbe rappresentato da lì in avanti per tutti noi. Pomodori compresi. Del resto, per un addetto al banco pesce, quale paradiso può mai essere migliore di un’isola ittica?
Quanto a me, mi chiedevo che razza di condimento usasse Marisa per le cozze. Comunque mi piaceva, rendeva bene l’idea di quel che sarebbe stato quel luogo entro breve tempo, cioè quando sarebbe nato il Club, il Bedlam Club.
Era notte quando uscii dallo Zaratan dei Pozzarelli. Avevamo visto sei film (divorando tramezzini e succhi di frutta) e su ognuno di essi intavolammo una ricca discussione (sui film, è chiaro, non sui tramezzini). Non avevo mai riflettuto sulle portata teorica di pellicole come “Quarto Potere”, “Taxi Driver” e “Mamma ho perso l’aereo”. Salutai Nicola ringraziandolo per la bella giornata trascorsa in sua compagnia.
“Ti accompagno.”
“Non occorre, grazie. Conosco la strada.”
“Ok. Allora ci vediamo domani sera.”
“Grazie. A domani.”
Mi incamminai verso l’uscita cercando di fare meno rumore possibile: l’ecosistema noto come Famiglia Pozzarelli a quell’ora doveva essere a riposo.
O almeno così credevo.
Fuori in giardino, sul viottolo che dava alla strada principale per poco non mi veniva un infarto: un tizio magro, alto, vestito di nero, con lunghi capelli e una lunghissima barba di colore grigio-bianco da sembrare il mago carogna del Signore degli anelli se ne stava fermo, immobile a fianco alla colonna del cancello, con gli occhi sbarrati e la faccia scavata che preannunciava tutte le fasi più lugubri e maleodoranti della morte.
Se mi avessero fatto un prelievo di sangue in quel momento avrebbero estratto una granita.
Ero diventato il sorbetto di Dracula.
La Morte voltò lentamente i suoi occhi verso di me puntandomi contro il suo indice sinistro (manco quello destro!) nodoso e appuntito nell’estremità del suo lungo e giallognolo artiglio. Mi aspettavo che dicesse qualcosa come “è giunta la tua ora”, “preparati a pagare in eterno per i tuoi peccati” o “per me si va nella città dolente” o qualche altra cosa carina ed edificante da dirsi ad uno in procinto di abbandonare, suo malgrado, il reame terrestre. Sentivo crescere in me il pentimento, non tanto per i miei peccati, quanto per l’insana idea della sera prima di creare un effetto agrodolce aggiungendo la marmellata di prugne alle cozze con la senape. Giurai che avrei rinunciato ai miei esperimenti gastronomici in cambio della salvezza dell’anima: certi miscugli si pagano in banconote diarroiche.
O strane visioni notturne.
Tuttavia, invece della solenne chiamata, Caronte, senza spostare il suo indice d’accusa dal Sottoscritto disse qualcosa che lascerebbe sgomento chiunque: “La primavera irrora le sue gemme col sangue del silenzio.”
Quella voce sembrava provenire dall’Oltretomba. O da un tombino, fate voi...
“...Scusi?”
“La primavera irrora le sue gemme col sangue del silenzio.”
“Ehmm... Sì, certo... Anche il mio gommista me lo ripete spesso...”
Non sapevo cosa pensare. Ero atterrito e spaventato. Cercavo un modo per oltrepassare la soglia del cancello senza incorrere nel fiato mortifero di quell’essere enigmatico. Cercai di fare conversazione: “Lo sa che ha proprio un bel taglio di capelli? Chi è il suo barbiere? Rasputin?”
Ma il tizio non rispose. Abbassò l’indice e si pietrificò.
Così.
Sembrava che la sua anima improvvisamente si fosse trasferita altrove dimenticando di portarsi appresso quel bagaglio di ossa canute che era il suo corpo.
“Signore?... Si sente bene?...”
Niente. Completamente assente. Cominciò a tremarmi la voce...
“Ehmm... Nicola? Nicola... Niiicoooolaaaa!!”
Chiamavo il mio amico, incurante di svegliare l’intero quartiere e senza spostare lo sguardo da quello spettro immobile.
Nicola corse in mio soccorso.
“Che ti succede?”
Senza parlare indicai l’Amministratore Condominiale dell’Ade, ancora immobile nella sua posizione di trapassato verticale.
“Cugino Cleonte. Hai spaventato il mio amico. Tranquillo. E’ solo il Cugino Cleonte. E’ un po’ bizzarro, ma una brava persona...”
Mi girai verso Nicola esterrefatto: “Lo zio di Satana è tuo cugino?”
Nicola mi spiegò che non era un vero e proprio cugino e che non era nemmeno sicuro si chiamasse Cleonte. Era sempre vissuto in quella enorme casa, come Nicola del resto, e tutta la sua famiglia da generazioni (o almeno dai tempi della Bonifica dell’Agro Pontino). Nessuno ha mai potuto affermare con esattezza che grado di parentela avesse con la famiglia Pozzarelli. Era lì, viveva con loro da sempre. Ormai erano tutti abituati a quella figura innocua ed evanescente. Non si sapeva dove dormisse, dove passasse gran parte del suo tempo. Compariva così, diceva la sua e poi se ne andava. Dove? Nessuno l’ha mai saputo. Comunque a tavola qualcosa per lui gliela lasciavano ogni volta. Era pur sempre uno di famiglia. Pare che il suo vero nome fosse Armando, ma preferiva essere chiamato Cleonte, anzi, Cugino Cleonte, a ricordare il suo rapporto, come dire, tangenziale con la famiglia Pozzarelli, e non diretto.
“Ma ha detto delle cose...”
“Ha parlato?”
“Sì, perché non lo fa?”
“Raramente. E cosa ha detto?”
“Ha detto una cosa sulla primavera, sul sangue...”
“Non puoi essere più preciso?”
“Beh, chiediamolo a lui...” e indicai il punto dove credevo fosse ancora, invece, con mia grande sorpresa era sparito. Forse la sua anima ha preferito all’ultimo portarsi quel mucchietto di ossa come bagaglio a mano piuttosto che appiccicarci un adesivo con codice a barre e imbarcarlo sul Velivolo per l’Aldilà, qualora esistesse.
“Non... non c’è più...”
“Fa sempre così... E’ un vero peccato che tu non ricordi con precisione quello che ha detto. E’ importante, sai? Te lo dico per le prossime volte, è una regola di famiglia: quando parla Cugino Cleonte bisogna prestare la massima attenzione.”
“Perché? E’ un profeta? Un oracolo?”
“Perché potrebbero essere le sue ultime parole!”
“Oh, poverino. E’ malato?”
“Macché! Scoppia di salute!
“Dall’aspetto non si direbbe...”
“E’ vero, è sempre stato un po’ magro. Ma ti assicuro che nessuno in famiglia è più sano di lui.”
Non capivo... “E allora perché parli di ultime parole?”
“Devi sapere che da sempre Cugino Cleonte è fissato col fatto che si può morire da un momento all’altro. Beh, certo, questo vale per tutti, no?...”
E fin qui... grattatina a parte...
“...Hai mai pensato a quali potrebbero essere le tue ultime parole in punto di morte?”
Mi sentivo a disagio. Molto a disagio...
“Pensa che imbarazzo per un grande pensatore, che nella vita ha detto solo cose di profonda saggezza, se un istante prima di morire gli dovesse scappare una stupidaggine.”
“Non capisco, Nicola... Quello che conta è ciò che uno ha detto e fatto nella vita, non in punto di morte.”
“Anch’io la penso come te, ma Cugino Cleonte è di tutt’altro avviso. Secondo lui le ultime parole che un uomo pronuncia sono quelle più degne di essere ricordate per sempre. E’ fissato con questo pensiero. Per questo il nostro caro cuginetto non parla mai: ha paura di morire da un momento all’altro - cosa che in fondo può accadere a chiunque, no? (aridàjje!) - e che le ultime cose dette siano parole inutili o stupide o quantomeno idiote. Per questo passa lunghi momenti in silenzio a formulare quelle che possono essere le sue ultime parole e apre bocca solo quando ha completato un pensiero degno di essere ricordato in caso di dipartita, e per sua stessa disposizione tali parole andranno incise sulla sua lapide. Nel caso in cui la vita gli conceda una proroga, trascorrerà il resto del tempo a pensare ad altre ultime parole, e così fino alla fine dei suoi giorni.”
Strabiliante.
“Capisci, quindi, quanto sia importante ascoltare bene Cugino Cleonte quando parla? Quell’uomo ti ha ritenuto degno di essere il depositario potenziale delle sue ultime parole. Ti rendi conto di cosa significhi ciò? Sei approvato! Sei uno di noi. Hai la benedizione di Cugino Cleonte.”
Non pensavo che fosse necessaria l’approvazione di Cugino Morte per far parte di quella strana comunità, il beneplacito di un uomo che pronuncia solo ultime parole. Sta di fatto che quella giornata fu una delle più significative della mia vita: varcai su agognato invito la soglia del Sancta Sanctorum Pozzarellicum, prese forma lo Zaratan di San Brandano tra i pomodori e la Ritmo 60 di Nicola, mi beccai una benedizione Broccolòide dalla moglie di Conrad e l’estrema unzione di Sua Funestà Cugino Cleonte.
Mi ci volle qualche mese per ricordare e riferire con esattezza e solennità iniziatica quella dichiarazione di morte. Nel frattempo il Cuginastro aveva già pronunciato - comparendo qua e là - qualche altra decina di ultime parole. Ma non era questo il punto, il Sottoscritto era stato ritenuto degno di udire con le sue orecchie quel notturno testamento cleontico e aveva l’onere e l’onore di darne pubblica testimonianza. Ricordo ancora quando, seduti tutti a tavola, mi alzai in piedi e pronunciai davanti agli astanti quella roba liturgica e chirurgica fatta di primavera e sangue. Ci fu un applauso per il Sottoscritto. Ero commosso. Ero parte della famiglia.
La mia nuova vita cominciava quel giorno, con la benedizione funebre di Cleonte. Presto sarei stato parte della Congrega sorta tra gli scaffali dello Zaratan e la Ritmo 60 di San Brandano.
Il Bedlam Club era alle porte.